TOLSTOJ: SCRITTI PEDAGOGICI

 

PREFAZIONE A “La scuola di Jàsnaja Poljana”
La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre racconta un pezzo di vita della scuola per contadini diretta da Lev Tolstoj. L’interesse per questo genere di esperienze, da parte nostra, non è quello di chi sia in cerca di un modello da riproporre. La critica dell’istituzione scolastica, che stiamo cercando di portare avanti, non può essere rinchiusa entro i confini della ricerca pedagogica: pensiamo che la separazione tra insegnanti e alunni, tra promossi e bocciati, tra licei e scuole professionali, tra la “nobile” istruzione istituzionale e l’umile pratica di vita, sia semplicemente il riflesso, oltre che un meccanismo riproduttore, del modello autoritario di società in cui la scuola è inserita. L’origine del progetto Sprofessori sta nella consapevolezza del meccanismo perverso in cui, come insegnanti, siamo cascati: dall’esigenza naturale di diffondere strumenti utili alla vita (come leggere, scrivere e far di conto) alla gestione di un ruolo di potere che non ha nulla a che vedere con lo scopo iniziale. Una via di fuga da questo ruolo, per chi rifiuta posti d’autorità, è spesso quella di considerarsi “stimolatori”, dediti alla coltivazione dello spirito critico e dell’autonomia dell’alunno, piuttosto che all’insegnamento di specifiche competenze. Nonostante la simpatia che ci ispira l’insegnante che, come noi del resto, si preoccupa di limitare i danni insiti nella propria funzione sociale di “formatore di cittadini”, le differenze con quello tradizionale ci appaiono come lievi sfumature. Entrambi condividono lo stesso fastidioso difetto: il vizio di voler decidere per gli altri e di giustificare questo vizio con una presunta necessità sociale. Qualunque tipo di pedagogia e di scuola partono dall’accettazione di quella parcellizzazione del sapere che consente ai pedagogisti di decidere cosa gli altri devono imparare e agli insegnanti di ergersi ad autorità. Una società liberata deve fare a meno anche della classe degli insegnanti antiautoritari; anch’essi devono sparire come corpo specializzato di professionisti: l’autonomia, come lo spirito critico, non possono che essere una conquista individuale, in contrasto con l’esistenza di qualunque casta di specialisti.L’interesse per la scuola di Tolstoj, nasce proprio dalla condivisione di quel sentimento, diffusosi in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, che sia possibile costruire una società basata sulla libertà piuttosto che sull’annullamento dell’individuo. Questo sentimento si tradusse in varie forme: dalle insurrezioni popolari, alle organizzazioni internazionali di operai, fino alle scuole che promuovevano l’emancipazione del popolo. La prima di queste scuole fu, appunto, quella di Jàsnaja Poljana, fondata nel 1859 da Tolstoj per i contadini che lavoravano nei dintorni delle sue proprietà. Questo dato sarebbe già di per sé sufficiente ad allontanare l’esperienza di Tolstoj dallo spirito del tempo, ben riassunto dalle parole: «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi o non sarà!».
Tolstoj era un aristocratico, un possidente e un mistico il cui unico mestiere prima di fare l’educatore era stato quello di soldato nell’esercito dello zar: che la salvezza del popolo non dipendesse dalle sue azioni, era chiaro ai rivoluzionari di allora ed è chiaro a noi. Quel che però ci sembra interessante prendere in considerazione è il racconto di un esperienza educativa fondata su alcuni presupposti che riteniamo condivisibili: l’assenza di programmi, che nessuno ha il diritto di imporre, di esami e di disciplina, funzionali solo alla creazione di sudditi obbedienti, e di quell’obbligo scolastico che uccide l’interesse per qualunque attività. I principi, che la pedagogia tolstojana traeva dallo spirito del tempo, apportandovi anche una notevole influenza originale, verranno presentati in un’altra pubblicazione. Lo scritto che segue è estratto della rivista Jàsnaja Poljana (Radura Serena) redatta nell’anno 1862, che prende il nome, come la scuola, dalla tenuta della famiglia Tolstoj, vicino la città russa di Tula. Questo testo, con tutti i suoi limiti, mostra un esempio di ciò che ogni insegnante, come ogni rivoluzionario, dovrebbe fare: sperimentare tecniche, disfare teorie e imparare dalla relazione con gli altri. Quello che l’autore afferma rispetto alla scuola, infatti, è senz’altro estendibile a tutta la società: «come tutti gli esseri viventi la scuola non solo si modifica ogni anno, ogni giorno, ogni ora, ma è soggetta a crisi temporanee, a malattie, a cattivi influssi». Le contraddizioni, spesso stridenti, emergenti tra la pratica e la teoria non possono che divenire un ulteriore strumento di analisi nelle mani di chi abbia davvero voglia di modificare ciò che lo circonda. Tuttavia, dobbiamo ammettere che alcuni “cattivi influssi”, presenti nella pedagogia tolstojana, sono imperdonabili. Uno su tutti: il cristianesimo. A nostro avviso, tutte le forme di religione, dal cattolicesimo al materialismo scientifico, passando per l’umanesimo cristiano e l’educazione civica, rappresentano la principale dimostrazione della funzione addomesticante della scuola. Ovviamente, essendo per ragioni personali la religione cattolica quella che più ci è odiosa, fa un certo effetto sentire un sostenitore della libertà come Tolstoj definire la Bibbia «il miglior libro dell’infanzia di ciascun uomo». Nessuna critica anarchica dell’istruzione è più efficacemente distruttiva delle parole che Tolstoj usa per sostenerne l’importanza: «Non posso immaginare quale istruzione sarebbe possibile se questo libro non esistesse! […] Per rivelare all’alunno un mondo nuovo e fargli amare la scienza, non vi è altro libro che la Bibbia». Non c’è bisogno di risalire con la mente a Bruno e Galilei per provare disgusto per queste parole. Tuttavia sono sostanzialmente veritiere se si vuole tenere in vita il ruolo della scuola, poiché l’autorità, anche quella di Tolstoj o degli insegnanti di oggi, ha bisogno di un fondamento sacro. Nel paragrafo sulla storia sacra, scrive: «Provai allora a legger la Bibbia e, per suo mezzo, me li sono accattivati totalmente: il lembo del velo era stato sollevato ed essi si affidavano a me completamente. Essi amano il libro, lo studio e me stesso». Su questo punto, l’esperienza di Jàsnaja Poljana può essere stata utile solo in una direzione: quella di persuadere Tolstoj dell’errore che commetteva nel ritenersi possessore di «una visione del mondo superiore a quella dei suoi alunni». Qualche anno dopo, infatti, darà una descrizione molto lucida di questa “visione superiore”: «Quest’insegnamento è detto cristiano, ed ecco in che consiste. C’è un Dio il quale, circa seimila anni or sono creò il mondo e il primo uomo. Questo peccò e per tale motivo Dio punì tutti gli uomini. Poi Dio inviò sulla terra suo figlio, che forma con lui uno stesso Dio, affinché gli uomini lo mettessero in croce. E, a cagione di questo supplizio, essi furono liberati dal castigo per cui dovevano espiare il peccato di Adamo. Se gli uomini credono a tutto ciò, il peccato di Adamo sarà loro perdonato; se non ci credono, saranno crudelmente puniti. E la prova che questa è la verità è che Dio l’ha rivelata, quel Dio la cui esistenza ci viene accertata da quelle stesse persone che insegnano tutte queste cose. Senza tener conto che le diverse confessioni hanno portato a questa dottrina fondamentale, si può dire che tutte le religioni proclamano una regola identica, cioè: che gli uomini devono credere a ciò che a loro s’insegna e sottomettersi al potere costituito. Per l’appunto questa dottrina è il fondamento della menzogna, la quale fa sì che gli uomini, considerando il servizio militare come una cosa buona e utile, si fanno soldati, sono trasformati in macchine inerti e opprimono i loro fratelli». Questo brano, pubblicato oltre trent’anni più tardi della rivista Jàsnaja Poljana, non lascia molte attenuanti alle scelte di una scuola dove, su 12 materie, almeno la metà era collegata a contenuti riguardanti il nazionalismo e la religione. D’altra parte, però, le riflessioni che la pratica pedagogica suscitò in Tolstoj sono interessanti e talvolta attuali, sia rispetto a problemi tecnici come l’insegnamento della lettura o della geografia, sia rispetto a problemi più generalmente legati alla vita scolastica, come quello del rapporto con il mondo esterno o della gestione dei conflitti. È interessante osservare come la pratica vissuta porti a conclusioni molto distanti dagli astratti principi filosofici da cui parte il maestro: ad esempio, quando il moralista cristiano, apostolo della nonviolenza, suggerisce all’alunno infastidito dal compagno di rendere pan per focaccia, oppure quando il teorizzatore dell’”ordine spontaneo” odia quest’ordine a tal punto da strappare il cartello che i bambini avevano fatto per sbeffeggiare uno di loro che aveva rubato. Tuttavia, l’insegnante che legga queste pagine può senz’altro prendere Tolstoj a modello di scrupolosità: appare evidente la sua volontà di instaurare un rapporto di mutuo apprendimento ed è chiaro il notevole impegno che egli investe a questo scopo, dalla lettura di svariati testi pedagogici, all’attenta osservazione dei suoi allievi. Molti sono i risultati di questo impegno riportati nel testo: dalla scoperta del «sentimento di giustizia che la folla conserva» alla convinzione che «i soli libri che il popolo capisce non sono scritti per lui, ma da autori nati dal popolo». Ancor di più sono i dubbi suscitati: viene messa in dubbio, ad esempio, l’importanza di imparare la storia, la geografia e persino la letteratura: «Può darsi che l’uomo del popolo non capisca e non possa capire la nostra lingua letteraria perché non ha niente da capire o perché tutta la nostra letteratura non è adatta a lui e che egli stesso debba creare la sua letteratura». Quel che è certo è che Tolstoj abbia instaurato una relazione che gli ha permesso di capire meglio chi aveva di fronte, mettendo in discussione se stesso ed il suo ruolo e giungendo a conclusioni, a nostro avviso, importanti non solo per chi si dedica all’insegnamento: «questo disordine, o meglio quest’ordine libero, ci appare terribile solo perché siamo abituati al diverso ordine in cui siamo stati allevati. […] Il maestro tende sempre a scegliere il mezzo di insegnamento più comodo per lui. Più il mezzo è comodo per il maestro, meno lo è per l’alunno. Solo la tecnica d’insegnamento che soddisfa gli alunni è giusta». Più che per le conclusioni raggiunte, il testo che segue ci sembra importante come stimolo di indagine critica della realtà e, sopratutto, come esempio di un tentativo di collegare questa indagine critica con una pratica di vita.

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PREFAZIONE A Scritti pedagogici

Sopprimere nell’educazione la disciplina, i programmi e le classificazioni, le tre iniquità della regolamentazione scolastica attuale, da cui derivano tutte le iniquità sociali: la disciplina generatrice di dissimulazione, di ipocrisia e di menzogna; i programmi, distruttori d’ogni originalità, iniziativa e responsabilità; le classificazioni, generatrici di rivalità, di gelosie e di odi. Così il nostro insegnamento sarà integrale, razionale, misto e libertario: integrale, perché tenderà allo sviluppo armonico dell’essere tutto intero e fornirà un insieme completo, collegato, sintetico, parallelamente progressivo in ogni ordine di cognizioni, intellettuali, fisiche, manuali, professionali, e ciò a partire dalla più giovane età; razionale, perché sarà basato sulla ragione, e conforme ai principi della scienza attuale e non sulla fede; sullo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personale e non su quello della pietà e dell’ubbidienza; sull’abolizione della funzione di Dio, causa eterna e assoluta di asservimento; misto, perché favorirà la coeducazione dei sessi in una frequentazione costante, fraterna, familiare dei fanciulli, giovani e giovanette, che dà all’insieme dei costumi una particolare serenità; lungi dal costituire un pericolo, essa allontana dall’idea del fanciullo le curiosità malsane e diviene, nelle sagge condizioni in cui deve essere osservata, una garanzia di preservazione e di alta moralità; libertario, perché gioverà all’immolazione progressiva dell’autorità a favore della libertà, lo scopo finale dell’educazione essendo il formare degli uomini liberi, pieni di rispetto e d’amore per la libertà altrui.
Questo Manifesto per la libertà dell’insegnamento, pubblicato a Parigi nel 1898, portava in calce, tra le firme di militanti anarchici come Pëtr Kropotkin, Louise Michel, Charles Malato, Jean Grave ed Élisée Reclus, anche quella del celebre romanziere russo Lev Tolstoj. L’atmosfera culturale di cui questo documento era figlio non era nata però negli studi e nelle biblioteche, ma proveniva direttamente dal bisogno di libertà del popolo lavoratore. Una libertà che, a differenza di quanto avviene oggi, non veniva invocata attraverso petizioni all’autorità di turno, ma conquistata sulle barricate attraverso la coscienza della propria forza e l’autorganizzazione: un atto di autoaffermazione, ossia di educazione nel senso etimologico della parola. Operai il cui nome non è stato coperto di celebrità dalla storia dei vincitori, sono i veri responsabili di quest’idea di libertà come bene collettivo. Alcuni di questi operai, rivolti agli studenti parigini, si esprimevano così alla vigilia del primo congresso dell’Internazionale dei Lavoratori (3-8 settembre 1866):
L’umanità ha sofferto abbastanza; troppo a lungo è stata piegata sotto il gioco abbrutente della forza, ed è ora che, cacciando dal suo cuore e dal suo cervello ogni superstizione, si alzi in piedi, reclamando con energia la giustizia. […] Ebbene! A voi giovani, con le vostre nobili aspirazioni non ancora raffreddate dall’età, a voi, speranza dell’avvenire, dal fondo della nostra miseria diciamo: venite in mezzo a noi, vedrete le nostre mani indurite dal lavoro; venite a rafforzare la nostra alleanza. Ci insegnerete la scienza e noi vi insegneremo i misteri del lavoro. Vi conosceremo meglio e vi ameremo di più.
Probabilmente, il messaggio contenuto in testi come quelli citati è comprensibile, ancora oggi, più con il sentimento che non con l’analisi del linguaggio. Per chi abbia la disposizione d’animo adatta, il valore di quelle parole è intatto, anche se è facile prendere le distanze dalla fiducia nella scienza (dopo le bombe atomiche e la distruzione del pianeta ad opera della tecnologia) o dall’ideologia del lavoro e dell’istruzione (dopo aver visto cosa ha prodotto la scolarizzazione di massa). Dopo un secolo e mezzo, il bilancio è chiaro: molte delle istanze sollevate da quel movimento di emancipazione si sono trasformate in testi di legge oppure in elaborati giri di parole sui libri di pedagogia, senza che nessuno abbia acquisito la capacità di prendere in mano le redini del proprio destino. Maschi e femmine sono stipati nelle stesse classi, senza che le valutazioni abbiano troppa importanza e, se vogliono, possono rifiutare l’ora di catechismo cattolico; i pedagogisti parlano di libertà, di scienza e anche dell’equivalenza tra vita e apprendimento, ma le conoscenze che ciascuno di noi possiede su ciò che mangia, produce e utilizza sono diminuite, anziché aumentate.
Sono sbagliati i principi o c’è qualcosa che non va nel modo in cui si è provato ad applicarli?
L’ipotesi più probabile è che siano vere entrambe le cose. Innanzitutto è difficile parlare di principi, e dunque di parole, in un mondo che accosta parole come “Libertà” e “Mercato”, oppure “esercito” e “pace”. In secondo luogo, se anche riuscissimo a chiarirci sul significato delle parole, resterebbe da capire in che modo le azioni umane ne vengono influenzate. Quel che è certo è che l’opera di emancipazione dalla sudditanza verso l’autorità è ancora da compiere, e talvolta viene anche da dubitare che abbia fatto passi in avanti. Forse, a dover essere messo in discussione è proprio il presupposto che ci sia un avanzamento da compiere: il mito del progresso, della crescita e di uno sviluppo lineare delle potenzialità umane che, in ultima istanza, è il mito della scuola. Gli scritti di Tolstoj qui riportati sono appunto rivolti alla demolizione di questo mito. Lo scrittore russo, probabilmente più di ogni altro educatore antiautoritario contemporaneo, riesce a sfuggire all’ideologia progressista della sua epoca. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che il progresso, la scienza e lo sviluppo non corrispondono ad un miglioramento delle condizioni di vita o al conseguimento di una maggiore felicità. Gli educazionisti dell’ottocento avevano però più di un’attenuante, poiché la razionalità e la scienza, sulle cui basi volevano edificare una società più giusta, avevano un’ottima ragion d’essere nella contrapposizione all’irrazionalità e alle assurdità del potere religioso, economico e statale. Le parole di Tolstoj, oggi sono forse più comprensibili che allora: Ai nostri tempi chiamasi scienza non ciò che tutti gli uomini
ritengono essere vero, ragionevole e necessario, ma viceversa viene ritenuto vero, ragionevole e necessario tutto ciò che alcuni uomini chiamano scienza. […] Soltanto questa pseudoscienza dà ai potenti la possibilità di dominare, e toglie ai dominati la possibilità di liberarsi della propria schiavitù.
Allora come oggi, parlando di pseudoscienza, il riferimento alla pedagogia è inevitabile:
La pedagogia può definirsi quella scienza che insegna in che modo, vivendo male, si possa riuscire ad esercitare una buona influenza sulla gioventù; e rassomiglia alla nostra medicina, che pretende di insegnare come, vivendo contro le leggi della natura, si possa conservare la salute: scienze furbe e vuote che non raggiungono mai la loro meta.
Sebbene successive di qualche anno, le precedenti definizioni sono in sintonia con la visione dell’educazione delineata negli scritti qui pubblicati. Si tratta di una visione che anticipa quella dei descolarizzatori degli anni settanta, affermando la superiorità dell’apprendimento dalla vita rispetto a quello istituzionalizzato. Tolstoj analizza alcuni importanti temi alla radice del problema educativo, come la distinzione tra formazione e indottrinamento, la relazione tra insegnante e alunno e il ruolo del contesto sociale, della famiglia, della chiesa e dello stato. Sa di «turbare la serenità dei tecnici esprimendo una convinzione così contraria all’opinione generale», ma non esita ad attaccare l’ideologia scolastica da tutte le angolazioni possibili: mette in discussione il diritto di educare, dei laici come dei religiosi, e persino la nobiltà d’animo dell’insegnante, il cui movente sentimentale Tolstoj attribuisce all’«invidia per la purezza del bambino» e al «desiderio di renderlo simile a sé». Rovesciando questa logica, egli mostra, nell’ultimo articolo (Chi deve insegnare l’arte letteraria a chi?), la possibilità di recepire da un bambino di dieci anni, «l’arte di insegnare ad esprimere i pensieri» e la rinnovata convinzione che «il fanciullo è più vicino di me, più vicino di qualsiasi adulto, all’armonia del vero, del bello e del bene». L’idea alla base della scelta di fondare la scuola di Jàsnaja Poljana consiste forse proprio in questa presunta superiorità morale del bambino rispetto all’adulto.
Ciò che però ci sembra più interessante è la riflessione su alcuni termini (educazione, scuola, cultura) che, oggi come 150 anni fa, fanno parte del dibattito politico sebbene nessuno si preoccupi di fornirne una pur approssimativa definizione. Tolstoj ci prova, e sebbene incorra in qualche contraddizione, dà l’impressione di grande lucidità e, a nostro avviso centra il problema: la questione della libertà. Attorno a questo concetto egli fa ruotare la distinzione tra «educazione», imposta dall’insegnante agli alunni, e «formazione culturale», prodotto di un rapporto libero. Appunto in contraddizione cade però quando, dopo aver definito la scuola come «l’azione consapevole dell’educatore sugli educandi», teorizza, e cerca di mettere in pratica, una scuola che non cerchi di educare, ossia di obbligare ad apprendere ciò che desidera l’insegnante.
Al di là delle questioni terminologiche, la contraddizione, forse propria di tutto il movimento che faceva riferimento al Manifesto per la libertà dell’insegnamento riportato all’inizio, sta proprio nel tentativo di conciliare la libertà con la conservazione dei ruoli insegnante-alunno o, in altri termini, la liberazione sociale con la fondazione di scuole. Lo stesso Tolstoj si accorgerà di questa contraddizione, e in una corrispondenza del 1909 scriverà: «Dico innanzitutto che la distinzione tra l’educazione e l’istruzione, fatta nei miei articoli pedagogici, è artificiale. L’educazione e l’istruzione sono indivisibili. Non si può dare un’educazione senza trasmettere delle conoscenze e, d’altra parte, ogni conoscenza possiede un’influenza educativa». Detto in altre parole: nessuno è neutrale e imparziale, nemmeno la scienza, i musei, le biblioteche e gli insegnanti libertari. Tanto vale schierarsi, discutere le idee e le azioni di chi esprime ambizioni affini alle nostre e cercare insieme un percorso di liberazione, senza rinchiuderci in ruoli e categorie.

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