CHIUDIAMO LE SCUOLE

PREFAZIONE A CHIUDIAMO LE SCUOLE
“Chiudiamo le scuole”, scritto da Giovanni Papini il primo giugno 1914, contiene argomenti, a nostro avviso ancora attuali, a sostegno della proposta contenuta nel titolo: impossibile sarebbe riassumerli con maggior chiarezza e lucidità di quanto abbia fatto l’autore stesso. Qui ci preme piuttosto riassumere le motivazioni che ci hanno portato alla scelta di ripubblicare questo scritto. Sappiamo quanto appaia provocatoria una proposta che, ridotta a slogan, potrebbe essere condivisa dai membri dell’attuale governo italiano, a giusta ragione accusato da più parti di voler smantellare la scuola pubblica. Tuttavia non è il gusto di provocare a muoverci, ma la volontà di costruire una scuola e una società migliori della miseria che abbiamo intorno, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione diretta. L’idea di base è semplice: individuare chi sono i nostri compagni, quali individui condividono almeno una parte delle nostre aspirazioni ed avviare un confronto che porti a trasformare le idee comuni in azioni. Questa operazione coincide con quella di individuare chi nostro compagno non può esserlo. Il fatto di scegliere un metodo ed una pratica assembleari e autogestionari, pone fuori dal cerchio dei nostri possibili referenti i politici di ogni colore, così come i partiti e i loro sostenitori: favorire l’ascesa al potere di un partito piuttosto che di un altro non è affare che ci riguardi. Una ragione per questo disinteresse è, senz’altro, la constatazione della continuità delle politiche di asservimento della scuola agli interessi del mercato, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica (almeno a partire dalla Riforma Berlinger del 1998). Vi sono però ragioni più profonde per parlare d’altro: l’onestà intellettuale, innanzitutto. Onestà che
mette, chiunque voglia occuparsi di insegnamento di fronte alla necessità di rispondere alle seguenti domande, prima di avviare qualsivoglia analisi politica dell’esistente: Cosa ho da insegnare? Perchè voglio insegnare? Queste domande stringono ancora il cerchio dei nostri interlocutori escludendo tutti coloro che riescono a coniugare il verbo insegnare in modo intransitivo. Diffidiamo di chi pone al centro dei propri obiettivi didattici l’astrattezza di nobili valori umani che, il più delle volte, nascondono solo l’incapacità di dedicarsi ad alcunché di concreto, mettendo l’insegnamento al secondo posto della graduatoria dei mestieri per inetti, preceduto solo dall’arruolamento nelle forze armate. Se non ha passione per una qualche attività specifica (non importa che si tratti di poesia, matematica, ricamo o arti marziali), l’insegnante non può che aver scelto il proprio mestiere sulla base della ragione individuata da Papini: «guadagnarsi pane,
carne e vestiti con una professione ritenuta “nobile” e che offre, in più, tre mesi di vacanza l’anno e qualche piccola beneficiata di vanità».
La condivisione delle proprie passioni e dei propri interessi, dunque, è il tema sulla base del quale vorremmo avviare una discussione sulla scuola e, tanto per essere fuori moda, un progetto rivoluzionario di cambiamento della società. La scuola meritocratica e di massa non è qualcosa che rimpiangiamo, nonostante lo squallore di quella del marketing industriale che i governi di tutto il mondo stanno preparando per le prossime generazioni. Non la rimpiangiamo perché, come insegnanti, vogliamo insegnare solo a chi ha voglia di ascoltarci e non vogliamo prestarci al gioco di selezionare chi da grande dovrà comandare e chi dovrà obbedire. Rifiutiamo insomma il ruolo di carcerieri e di giudici dei nostri alunni. Pensiamo all’insegnante come a qualcuno che, esperto in un campo particolare
dell’attività umana, mette a disposizione di chi gli sta intorno la sua passione e le sue conoscenze, semplicemente perché la condivisione lo arricchisce. Concepiamo dunque l’insegnamento come un rapporto umano e ogni rapporto umano come una forma di apprendimento. Ciò ci porta a desiderare una scuola più vicina al suo significato etimologico (scholè, dal greco, tempo libero, ozio); qualcosa di non separato dalla vita e in cui i ruoli di insegnante e allievo non siano fissati una volta per tutte sulla base di certificati cartacei, ma scelti a seconda delle esigenze. Chi scrive ha la pretesa di aver qualcosa da insegnare al punto da ritenere meritati i soldi che guadagna vendendo questa sua presunta capacità. Una simile presunzione, senz’altro alimentata negli anni dal conseguimento di svariati certificati ufficiali, crolla miseramente quando si prova a valutare le proprie capacità di affrontare la vita. Come tutti gli altri cittadini
siamo inadatti a decidere della nostra vita, essendo totalmente dipendenti da un sistema di cui non controlliamo assolutamente nulla: dal cibo che acquistiamo alla tecnologia di cui siamo circondati, passando per le tonnellate di immondizia che qualcuno deve levarci ogni giorno da sotto gli occhi e il naso. Al di là di qualche nozione scientifico-umanistica tutto ciò che possiamo lasciare in eredità agli studenti è la nostra condizione di precari (il capitale, sempre molto gentile quando inventa neologismi, chiama così tutti i lavoratori che considera superflui). Un progetto educativo andrebbe dunque rivolto innanzitutto agli adulti cioè, in definitiva, a noi stessi. Educare significa, dal latino, ex-ducere, condurre
fuori, ossia un atto di affermazione individuale e, se necessario, di rivolta: l’esatto contrario di quella remissività alle imposizioni dell’insegnante che a scuola spacciano come “buona educazione” ma che sarebbe più giusto chiamare addomesticamento. Condividiamo dunque quanto affermato da Papini: «Dappertutto dove un uomo pretende d’insegnare ad altri uomini bisogna chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento. Tutto s’accomoderà e si quieterà col tempo. Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno tempo) senza bisogno di sacrificare i 13 più begli anni della vita sulle panche delle semiprigioni governative. Ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali; la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la caverà da sé e la civiltà non rallenterà neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più salute e più gioia». L’unico punto cui sentiamo di apportare una correzione è quello in cui si rivendica «un po’ di igienica anarchia» per la fanciullezza e la gioventù: se l’uomo ha diritto a questo tipo di igiene, e noi pensiamo che l’abbia, non si capisce perché dopo l’adolescenza dovrebbe accettare di essere «servo, schiavo, prigioniero forzato e burattino».
PREFAZIONE A SULL’IGNORANZA DELLE PERSONE ISTRUITE
Sull’ignoranza delle persone istruite è uno dei saggi contenuti nella raccolta Table talk (Conversazioni intorno al tavolo, 1821-1822) di William Hazlitt. Se il saggio di Papini partiva da considerazioni di carattere morale ( “cosa hanno mai fatto i ragazzi, […] per far patire il loro corpo e magagnare il loro cervello?”), questo di Hazlitt parte dalla constatazione del fallimento del sistema educativo. È un approccio che sentiamo ancor più vicino al nostro. L’istruzione obbligatoria statale è stupida ancor più di quanto sia violenta. I ragazzi che vi entrano non sono certo puri spiriti liberi, come li dipinge certa retorica giovanilistica, ma senz’altro non ne escono migliori. Quel che impareranno è, soprattutto, la dipendenza dalla parola delle persone più istruite di loro e, in definitiva, l’incapacità di decidere su qualunque questione. L’argomento dovrebbe far riflettere una società che, nonostante la proliferazione di laureati in scienze ambientali e specialisti di ecologia, non trova un posto soddisfacente in cui deporre i propri rifiuti. Un problema che produce tumori, morti e scontri con la polizia, diventa il pretesto per ogni idiota che abbia letto qualche libro (o anche solo mezzo articolo di giornale) “per incominciare una disputa erudita (che è quanto dire un litigio)”. Qualcun altro, ancor più altezzoso, disdegna anche la disputa erudita o la discussione con i comuni mortali, preferendo richiedere allo stato “più fondi per la ricerca”, nella speranza di ottenere, tra qualche anno, un posto all’università per “studiare seriamente il problema”. Ciò è dovuto non soltanto al bisogno di denaro e di una rispettabile posizione sociale per se stessi, ma anche alla sincera convinzione che il benessere di una popolazione dipenda dal suo grado di istruzione. Da questa convinzione si ricava una totale sudditanza psicologica nei confronti delle persone più istruite e un più o meno esplicito disprezzo per quelle che lo sono meno. I commenti di persone definite “colte” e magari “di sinistra” sui “napoletani vero problema di Napoli” o sui “ delinquenti infiltrati nelle pacifiche manifestazioni studentesche” sono i segni evidenti tanto dell’assoluta incapacità di analisi quanto del razzismo culturale delle persone istruite. Val dunque la pena di prendere in considerazione quanto affermato da Hazlitt: «La conoscenza di ciò che è davanti o intorno a noi, che fa appello alla nostra esperienza, alle nostre passioni o ai nostri progetti, al cuore e agli affari degli uomini, non è istruzione. L’istruzione è la conoscenza di quello che solo le persone istruite conoscono. […] È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, è credere ciecamente al giudizio degli altri». Se queste parole sono vere siamo un popolo istruito. Senz’altro un popolo che «ha paura di avventurarsi in qualunque ragionamento, o di fare una qualsiasi osservazione per proprio conto che non gli venga suggerita passando meccanicamente lo sguardo su alcuni caratteri leggibili». Non mancherà chi obietterà che è stata proprio la scuola a insegnarci a leggere e a fornirci tutti gli strumenti per quella critica che adesso le stiamo rivolgendo. Senz’altro qualcuno osserverà che la dipendenza e la sudditanza dominano ancora di più tra chi non ha potuto o voluto andare a scuola. Da parte nostra ci sentiamo in diritto di essere irriconoscenti di fronte ai “regali” che non abbiamo mai richiesto. Ma il punto è che acquisire un’idea nuova o imparare a leggere non sono regali, ma conquiste. La ragione per cui queste conquiste non sono alla portata di tutti, o almeno non sono conseguibili da tutti con la stessa facilità, è una società fondata sul privilegio. Se dunque vogliamo che tutti abbiano la possibilità di istruirsi senza che nessuno vi sia costretto, occorre abbattere il sistema sociale in cui viviamo e non certo spostare soldi da un ministero all’altro. La lettura, come il dialogo, la critica e la polvere da sparo, fanno parte degli strumenti necessari per questo assalto al cielo. Impadronirsi di questi strumenti per condividerli con chi ci circonda, indipendentemente dal suo grado di scolarizzazione e dai titoli di studio conseguiti, è il nostro compito più urgente.

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