Perché c’è l’esercito a piazza del Gesù?

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A prima vista si direbbe che siamo usciti fuori tema. Per la prima volta pubblichiamo qualcosa che non parla di scuola. Eppure, non meno di tutte le altre pubblicazioni delle edizioni Sprofessori, questo libretto ha a che fare con l’idea di un possibile approccio antiautoritario al tema dell’educazione. Tale approccio necessita, a nostro avviso, della messa in discussione del ruolo sociale di insegnanti ed educatori e, soprattutto, dell’equazione scuola = educazione. L’azione nefasta di un’autorità a cui abbandonarsi, non si esaurisce nelle scuole: impariamo sin da piccoli ad affidarci volta per volta all’amore incondizionato dei genitori, al sapere di un insegnante, al buon senso di un politico, alla giustizia di un tribunale o alla rassicurante protezione di un corpo armato, perdendo gradualmente la capacità di badare a noi stessi. Per questa ragione, questo libretto non parla né di scuola né, come potrebbe sembrare, di militari, ma si limita a riproporre le domande che riteniamo importanti per chi ha a cuore la propria educazione.

Cosa desideriamo realmente?
Andare a cinema, in palestra o a fare yoga, la partita di coppa, la laurea, l’ultimo modello di Iphone, l’assunzione a tempo indeterminato, 15 giorni di vacanza all’altro capo del mondo. Cosa ci interessa? La pace nel mondo, il surriscaldamento del pianeta, il consumo solidale, le lotte contro il precariato, il diritto al lavoro, all’istruzione, alla sicurezza e alla pensione? Cosa desiderano gli esseri umani?! La domanda presuppone un’umanità che ancora non esiste, rinchiusi come siamo nell’ideologia del successo personale, prima in famiglia, poi a scuola, al lavoro e nel rapporto con la legge e l’autorità. L’accesso ad una quantità di informazioni mai raggiungibile prima d’ora, l’esistenza di corsi per l’apprendimento delle più disparate attività e i sollazzi tecnologici più evoluti non ci forniranno l’elemento necessario per un interesse genuino: la capacità di desiderare. Il desiderio nasce dalle relazioni umane: occorre rompere l’isolamento.

Cosa possiamo insegnare/imparare/condividere?
La data della scoperta dell’America, perché Manzoni si convertì al cristianesimo, le tabelline, i verbi, le equazioni, le capitali di tutto il mondo, tanto per cominciare. Poi lifelonglearning, apprendimento per tutta la vita: tecnologia informatica, scienze cognitive, ambien-tali, sociali, politiche, capire la crisi, lo spread, lo spin, lo spritz, l’account.
E se ciò ci privasse della capacità di guardarci intorno? Chi abita nel nostro palazzo? A che serve il nostro lavoro? Perché lo facciamo? Come impieghiamo il nostro tempo? Che succede a piazza del Gesù? Sembra che l’interesse per l’apprendimento e la condivisione oggi tanto di moda, svanisca in proporzione a quanto le faccende ci riguardino da vicino: queste domande vengono bollate come “ovvie” e, dunque, giudicate non meritevoli di risposte. È invece dall’ovvio che dovrebbe partire qualunque processo di apprendimento, da un problema che riguarda tutti gli esseri umani: il bisogno di una vita che valga la pena vivere. Prima di ogni altra cosa dovremmo imparare a riconoscere l’umanità presente in chi ci circonda ed i problemi che si pongono alla nostra vita comune. Ripartire dalle ovvietà: siamo felici? Siamo padroni della nostra vita? Ciò potrebbe metterci insieme ad altri esseri umani davanti ad altre ovvie e infrequenti domande: cosa ci fanno i militari nelle piazze delle città? Chi o cosa proteggono? Contro chi hanno intenzione di rivolgere le loro armi?

Come creare un contesto in cui ciò sia possibile?
Innanzitutto, dimenticare il lavoro, il denaro, il profilo facebook, la playstation, le bollette, lo shopping, le comitive, i gruppi politici e quelli d’affinità, il sacrificio, il martirio, l’evangelizzazione, la fedeltà all’immagine che ci siamo costruiti. È impossibile? Non resta quasi niente? Significa che non abbiamo niente da perdere: non c’è bisogno di simulare passioni o farci piacere ciò che ci fa schifo. Non c’è bisogno di girare lo sguardo. Anche se viviamo in una caserma a cielo aperto, non c’è bisogno di comportarci da soldati. Provando ad essere ciò che siamo, potremmo accorgerci che non siamo soli. Chiamare guerra la guerra e mercenari i mercenari potrebbe essere l’inizio di una vita libera dall’una e dagli altri. Capa a pazzià va in questa direzione e questo libretto è il risultato di ciò che la gente seria chiama una perdita di tempo: discussioni inconcludenti, disegni, scemenze intervallate da qualche pensiero serio, attacchinaggi, passeggiate, fotografie… In termini quantitativi la condivisione è fallita, ma ciò non modifica di molto le nostre aspettative future: giocare, divertirsi, imparare, condividere e smetterla di accampare diritti, per liberarci finalmente dal dovere.

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