3 febbraio 2012, spazio anarchico 76a

La serata ha cercato di analizzare due approcci al problema dell’educazione libertaria che, sebbene entrambi di matrice anarchica, confliggono sul punto essenziale della questione. Il primo, riconducibile alla figura di Francisco Ferrer, è quello “classico” dell’educazionismo anarchico, incentrato sull’idea che una società più giusta è possibile solo attraverso la creazione, con le parole di Ferrer, di “persone capaci di distruggere e di ricostruire di continuo gli ambienti sociali e di rinnovare se stessi, esseri umani la cui forza consiste nell’indipendenza intellettuale, che non si assoggettino mai a nulla, sempre disposti ad accettare il meglio, felici per il trionfo delle idee nuove, con l’aspirazione a vivere vite molteplici in una sola vita.” Il secondo punto di vista, critico rispetto a questo approccio, è quello di Pedro Garcia Olivo, autore del libro El educador mercenario. L’idea contestata da Pedro è quella che “sia compito degli «educatori» (parte selezionata della società adulta) svolgere un’importantissima funzione a beneficio dei giovani: un lavoro ‘per’ gli studenti, ‘per’ loro e anche ‘dentro’ di loro – un determinato intervento sulla loro coscienza: «modellare», un tipo di uomo (critico, indipendente, creativo, libero, ecc.), «fabbricare» un modello di cittadino (agente del rinnovamento della società o individuo
felicemente adattato ad essa, a seconda delle prospettive), «instillare» certi valori (tolleranza, antirazzismo, pacifismo, solidarietà, ecc.)…”. Il punto di divergenza, spesso emerso anche dal confronto delle nostre posizioni personali, riguarda dunque il ruolo che hanno nella società le scuole e gli educatori: mezzo di emancipazione da far funzionare ai propri fini, o strumento del potere da combattere?
Elemento in comune ai due autori considerati è senz’altro costituito dall’anarchismo: la convinzione di vivere nella società sbagliata; la certezza che le violenze, le umiliazioni e la miseria morale e materiale che ci circondano non siano “incidenti di percorso” o “imperfezioni” di una tutto sommato necessaria organizzazione sociale, ma sottoprodotti di un male più grande da estirpare alla radice. A distanza di un secolo dall’opera di Ferrer, qualcosa di essa resta ancora valido per molti di noi, e per Pedro: la volontà di raggiungere il fine di una società umana e libera con mezzi coerenti, non in contraddizione con il fine prepostosi e, e qui viene il bello, di riporre nella propria coscienza il tribunale supremo preposto a giudicare su tale coerenza.
L’intervento introduttivo ha cercato di sottolineare come le teorizzazioni di questi due anarchici, come quelle di qualsiasi altro, siano inscindibili dalla sensibilità individuale che le ha generate e, dunque, dagli ostacoli che Ferrer ieri, come Pedro oggi, hanno incontrato nel proprio percorso verso la libertà. Per Ferrer, i principali di questi ostacoli erano stati la chiesa e l’insegnamento religioso. Osservando la sua biografia e le condizioni della Spagna in cui visse, appare chiaro il perché egli additasse al popolo questi tre nemici: la chiesa, la proprietà privata e lo stato (per inciso, è stata sottolineata la faziosità del documentario “Viva la scuola moderna” nel suo essere quantomeno omissivo su questo punto al fine di fornire l’immagine rassicurante, ma falsa, di un Ferrer “difensore della via pacifica alla rivoluzione”). Così come Ferrer aveva scovato nell’insegnamento religioso subito da bambino un ostacolo all’emancipazione umana, Pedro, dopo aver subito e imposto l’insegnamento “democratico”, individua in esso un nemico da combattere: così come un secolo fa, la morale cattolica ed il controllo della Chiesa arginavano la rabbia e il malcontento popolare che i privilegiati volevano seppellire sotto le ruspe del progresso, oggi sono i vari “riformismi” ad essere preposti allo smorzamento degli antagonismi di classe. La scuola è forse il terreno in cui il potere è più avanti in questo progetto: convincere le persone che non c’è via d’uscita oltre a quella del riformismo. Le sole critiche che si ascoltano sulla scuola riguardano la scarsità di finanziamenti o la professionalità del ministro di turno. Questa miopia, per non dire cecità, è grave non solo per quello che riguarda la scuola: su questa strada, è vicino un futuro in cui la contestazione popolare avrà come obiettivo quello di cambiare il colore delle divise dei militari per strada. Il passo successivo sarà l’assenza di qualunque tipo di contestazione.
Con queste motivazioni, l’intervento introduttivo ha dato sostanzialmente ragione alla critica di Pedro, pur sottolineando l’incapacità dell’autore di essere, come afferma, “cronista della propria lotta” (non si capisce bene in cosa questa lotta sia consistita). È stata però posta all’attenzione dei presenti la critica della forma scuola (qualunque luogo o situazione in cui sia a priori stabilita la separazione tra insegnanti e alunni) e il ruolo sociale di produttore del consenso che l’insegnante ha, indipendentemente dalla sua volontà e dalle ideologie a cui si ispira.
Questo punto di vista, che ha riportato all’inquietante parallelo tra la figura del professore e quella del poliziotto, è stato recepito più come provocazione che come spunto analitico. Le ragioni della scuola, che in molti hanno sostenuto, hanno avuto spesso le sembianze di una reazione difensiva rispetto ad un attacco personale (a nessuno piace sentirsi dare del poliziotto). Si è parlato della funzione socializzante della scuola, della sua importanza nel mostrare all’individuo forme di autorità diverse da quella dei genitori (e in quest’ottica è stata sottolineata la maggiore spinta alla ribellione che può fornire un severo insegnante autoritario rispetto ad un conciliante educatore libertario), della trasmissione di strumenti e della possibilità di condividerli tra persone di estrazione diversa (anche se ciò è in parte smentito dall’esistenza di scuole ghetto sia per poveri che per ricchi) e, come al solito, della perversità di qualunque forma di lavoro salariato in regime capitalista.
Tutte queste questioni, a cui pure riconosciamo elementi di validità, eludono il punto di partenza della nostra analisi: l’incapacità di concepire quegli elementi positivi di un rapporto basato sull’insegnamento, al di fuori del recinto scolastico. Da un lato è stato sottolineato come l’esistenza della scuola sia il prodotto di esigenze politiche ed economiche sovradeterminate che, come individui nati in una società autoritaria, ci sono state imposte contro la nostra volontà. D’altro canto è stato rilevato il pericolo di questo tipo di impostazione: se ne potrebbe dedurre che, per il semplice fatto di esserne scontenti, siamo irresponsabili di quanto ci accade intorno e, dunque, nel pieno diritto di aspettare tempi migliori. Occorre cambiare punto di vista: che lo si chiami “Società”, “Capitalismo”, “Mercato” o “marcio esistente”, quello che ci circonda è la somma delle azioni di 6 miliardi di individui piuttosto che una strategia pianificata da menti occulte che tramano contro di noi. Un punto di partenza potrebbe dunque essere quello di cambiare le nostre di azioni, indirizzandole verso una pratica quotidiana che ci ponga in contatto con gli altri individui, iniziando a rompere l’isolamento che attualmente viviamo. Il confronto tra persone diverse, ma accomunate da un problema o da un desiderio di comprensione o di cambiamento, potrebbe essere autogestito piuttosto che delegato alla scuola.

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